Colate

La mia ricerca inizia da una analisi delle tensioni tra il colore e le sue velature e i materiali lucidi e sintetici, quali le resine: le opere, sono spesso concepite come dittici e trittici, corpi in continuo processo di dialogo con l’ampio gesto e chi le osserva, intervengono nello spazio in modo dialettico e installativo.

INTERPRETAZIONE DI YEARS
AHEAD MARE NOSTRUM

2009 – 158×138 cm
Acrilico su tela e resine
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CUORI
IN CONFLITTO

2007 – 210×120 cm
Acrilico su tela e resine

CORPO

2011 – 150x100cm
Acrilico su tela resine e stoffa

TRA PASSATO E PRESENTE

2019 – 140x190cm
Acrilico su tela e stoffa

COMUNICATO STAMPA

La Pittura del divenire

testo di Giampietro Guiotto

La ricerca artistica di Annamaria Gallo è una profonda riflessione sul concetto di flusso: uno materiale e apparentemente invisibile, legato alla nostra corporeità, e un altro interiore, sconosciuto e insondabile della nostra memoria, che accompagna la nostra esistenza nel mondo. Due flussi, dunque, uno fisico e materiale, l’altro psichico e interiore, che vanno a confluire in una pittura astratta, dal ritmo ondulatorio e acquoso, che vuole ritrovare le energie originarie, quelle che da sempre governano la parte sommersa dell’universo, dove risiede l’armonia cosmica. E’, questa, una pittura che ammette indirettamente che quanto vediamo, non solo sulla tela, è solo “l’apparente”, in quanto l’essenza della realtà non risiede mai nel visibile e nell’immediatamente riscontrabile. Il rifiuto di raffigurare oggettivamente il mondo e il desiderio di svincolarsi da ogni narrazione realistica costituiscono il punto di partenza della pratica artistica per Annamaria Gallo, che trova in questa pittura astratta lo spazio mentale autentico, il luogo del vuoto e dell’immaterialità, ma nello stesso tempo del dinamismo che scaturisce dal gesto, che accompagna sempre ogni autentica azione vitale. L’artista sceglie i tempi della pittura perché gli permettono di coglierne i ritmi, di stendere e scoprire l’emotività del colore, di modulare il bianco della tela, di sondare la luce, che accende sempre i colori, di lasciare tracce. Il colore diventa luce, e viceversa, fino a trasformare l’arte in esperienza dello spirito, astrazione pura e luogo inaccessibile. Il dipingere si tramuta in esercizio pratico e rivelazione mentale di gesti della mano, che percorre – a volte con violenza, altre volte con tocco carezzevole – lo spazio visivo. Qui non c’è progetto predefinito, ma pittura che si fa esperienza interiore e rivelazione cromatica di luce e colore. L’artista libera la propria razionalità attraverso il gesto del dipingere, inteso come espressione immediata dell’esperienza. I pochi e ripetuti colori, e la scelta di soffermarsi unicamente sulle possibilità visive della linea e di pochi altri segni, trasformano la sua pittura in un intimo dialogo con il colore stesso, sollecitato a comporre giochi di luce, a cogliere emozioni impreviste, a svelare recondite intimità mediante inquietanti luminosità. Il colore sbiadisce e diluisce, fino a sembrare non appartenere più alla mano della pittrice; esso appare, infatti, luce riflessa, inedita texture di velature sbiadite, che lavano e percorrono la bianca tela. L’artista, a volte, copre le sue opere con un manto di resina, le sigilla e le “mette sotto vetro”, per trattenerne il rischioso dissolvimento della casualità, quasi un ambizioso tentativo di placare l’impeto e l’energia primaria di un mondo instabile e caotico. Passato e presente, casualità e calcolo, stabilità e incertezza vanno a confondersi in giochi lineari e imprevisti, mentre le sovrapposizioni di piani, linee e sgocciolamenti accertano il movimento nel suo spazio interiore, scandito dai tempi della meditazione di sé. In questa ricerca di elementi primari, come la linea-luce-colore, l’artista risale verso l’energia che ha originato il mondo, scopre che la luce accende sempre il colore e che lo sguardo – finestra sul mondo – deve sempre far fluire sentimenti ed emozioni interiori, affinché essi balzino fuori e prendano forma di vita. La pittura, intesa come luogo ideale e astratto, ci invita ad affidarci alle nostre sensazioni, a sprofondare nella parte interiore del nostro essere e guardarci intorno, affinché non perdiamo gran parte di ciò che la vita ci offre, ossia la bellezza in tutte le sue forme. Ed è così che, in questo spazio pittorico creato dal colore, prima diluito e poi assorbito dal fondo della tela grezza, ogni opera perde i connotati di visibilità e i valori descrittivi, per mirare, semmai, alla rappresentazione del movimento interiore, alla visualizzazione di uno spazio meditativo, per esperire i movimenti indefinibili che governano da sempre il mondo, quelli che cadenzano il dinamismo psico-fisico dell’universo. I dipinti, caratterizzati da composizioni minimaliste nella forma delle linearità pure, appaiono esplorazioni sulle relazioni tra i colori, analisi di come un tono cromatico riveli il suo particolare peso, la sua trasparenza, la sua densità e la sua lucentezza. Nell’astrattismo in perenne movimento, le linee parallele di colore sono sempre alla ricerca ludica della vibrazione ottica, per dileguarsi tra le energie che fanno fluire venti, mari, nubi e paesaggi indefiniti. Le pennellate morbide, nelle opere Fondale marino, Respiro, Corpo, Risveglio, Relazione e Veste, vanno a suggerire un ritmo, un battito e un respiro del mondo, traduzione della profondità della luce, intreccio di vuoto e pieno, energia corporea e mentale del gesto pittorico dell’artista. Ciò che rimane sulla tela è uno spazio empirico, privo di teorie, percepito come sostanza coloristico-luminosa, espansa e vibrante; ciò che resta è solo il gesto lento, progettato e non avventato dell’artista-imbianchino, che tinteggia il vuoto della parete e del mondo, affinché la pittura, seguendo il graduale accumulo dell’esperienza in corso, lasci trasparire la luce come in un velario. Lo scopo dell’artista è di avvolgere e di far immergere lo spettatore in uno spazio cosmico, immaginario e senza confini, di creare una situazione in cui l’opera si tramuti in parete o scenario, che si estende nell’ambiente circostante per farci vivere dentro. Nelle ultime opere, poi, Annamaria Gallo sembra abbandonare il dinamismo astratto e fluttuante delle sostanza luministiche per realizzare sculture oggettuali, raffiguranti manichini acrobatici dell’Io sospeso, disegni con figure, cioè, fino a progettare performance, installazioni e interventi ambientali, dove la distorsione e l’ombra di forme corporee rimandano sempre ad un fluire di corpi, che appaiono e scompaiono nel mondo. Nessuna filosofia pessimista, ma una constatazione dell’incessante fluire e del divenire della realtà, una coscienza dell’apparizione dell’Essere nel mondo, inteso come entità fluida, trasportata da continui avvenimenti cosmici, che rappresentano l’insostenibilità dell’immobilismo. Ritorna, ancora una volta, il concetto di fluidità, nel quale l’oggetto scultoreo o il dipinto è sempre solo apparenza, al pari dei tanti Origami che l’artista colloca alle pareti o installa in particolari ambienti. La grande scultura, o il grande Origami bianco, costruito dall’artista con tessuto bianco, dal sapore antico, e decorato con piccoli cerchi, ha finito per cambiare forma e colore durante la sua costruzione, per essere ammirato ora nella sua bellezza e fragilità in quanto simbolo del ciclo vitale e della fine delle cose, sempre e comunque proposte in una continua rinascita. Esso rappresenta, dunque, la temporalità, la trasformazione di una cosa materiale in qualcosa di diverso e superiore. L’opera diviene metafora di un flusso incessante e dinamico, nonostante il nostro sguardo la colga come immobile. Tutto alla fine è inganno, visivo e materiale, semplice apparizione e scomparsa, come le tante piccole sculture di figure appese nell’installazione Intervallo, o gli Origami, che raccontano che tutto non è mai finito, come le tante linee di una pittura astratta minimalista, che scorrono e si disperdono nella tela. Annamaria Gallo visualizza attraverso le sue opere non solo il concetto di fluidità, ma anche quello di durata di Henry Bergson, nel quale il tempo vissuto della coscienza si intende non solo come fluidità, ma come tempo della vita psichica di tutti gli esseri, che non cessano di mutare, perché, nella loro continuità di mutamento e di stabilizzazione, essi ricostruiscono sempre qualcosa di nuovo nella loro esistenza: un fluire che muta mentre fluisce, il fluire del presente, in cui riemergono ricordi, segni e apparizioni misteriose del passato, sempre incalzato dalla casualità e dalla imprevedibilità del futuro. O, come dice a proposito di Bergson un suo critico: “L’Io che dura è in primo luogo, infatti, una vita che si va facendo e che, di volta in volta, traccia sentieri per i quali passa il compimento e la dissipazione del proprio destino”.

(Matteo Perrini).
31 agosto 2019